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13/12/2009

William Congdon par Pigi Colognesi

William Congdon, Santorini 10, 1955
William Congdon, Santorini 10, 1955.


«Je suis heureux de saluer tous les artistes présents. Chers amis, je vous encourage à découvrir et à exprimer toujours mieux, à travers la beauté de vos œuvres, le mystère de Dieu et le mystère de l'homme. Que Dieu vous bénisse !»
Discours du Pape Benoît XVI, Chapelle Sixtine, samedi 21 novembre 2009.


Grâce aux bons offices d'Ida Soldini, Pigi (Pierluigi) Colognesi m'a autorisé à reproduire deux de ses textes (publiés par Il Sussidiario) consacrés à celui qui fut son ami, le très grand peintre William Congdon, pratiquement inconnu en France.
Je rappelle que Pigi Colognesi vient de publier un ouvrage intitulé William Congdon. L’avventura dello sguardo.

Scavare con lo sguardo, il grande insegnamento di Bill Congdon

Perché mi sono messo a scrivere un libro su Bill Congdon? Non è facile scavare e vedere chiaro in certi tipi di decisione. Ma forse potrei dire che le molle che mi hanno spinto sono state due: la gratitudine e il dispiacere.
La gratitudine è quella verso il Bill. L’ho incontrato – per ragioni di lavoro all’inizio e poi per l’amicizia di cui mi faceva dono – a metà degli anni Ottanta. Conoscevo già a grandi linee la sua storia. Giovane ribelle dell’alta borghesia americana aveva rifiutato di seguire la carriere che gli era stata preparata in famiglia per seguire quella ben più strana dell’artista. Poi la tragica esperienza della Seconda Guerra Mondiale vissuta non come soldato – aveva fatto una specie di obiezione di coscienza al servizio militare –, ma come guida di ambulanze; in questa veste aveva partecipato alle battaglie di El Alamein e di Montecassino ed aveva visto la tragedie del campo di concentramento di Bergen Belsen. Tornato negli USA si era trasferito a New York, dove aveva condiviso la straordinaria stagione pittorica dell’action painting, ed era diventato anche famoso. Ma tutto questo non gli bastava; una domanda inesauribile di salvezza, di purificazione, lo ha spinto a mettersi forsennatamente in viaggio alla ricerca dell’immagine pura, dello scoglio sicuro cui ancorare la sua nave sballottata dall’insicurezza, dall’insoddisfazione, dall’inquietudine. Sapevo che in questo peregrinare Congdon aveva scelto come seconda patria Venezia, da lui dipinta centinaia di volte, e che ogni nuovo viaggio era per lui in fondo una sorgente di disillusione, nuovo combustibile per una disperazione che cresceva fino a fargli sfiorare la scelta del suicidio. Sapevo che nel 1959 aveva abbracciato la fede cattolica e che, per un giro provvidenziale di amicizie, aveva conosciuto don Giussani e il suo movimento, cui si era dedicato anima e corpo, fino ad accettare di trasferirsi definitivamente a Gudo Gambaredo, dove sarebbe fiorita l’ultima incredibile stagione della sua pittura. Sapevo a grandi linee tutte queste cose. Ma un conto è leggerle sui libri o sentirne parlare da altri e un conto è condividerle con lui. Condividere, cioè, il suo sguardo.
Infatti è proprio il suo sguardo che mi ha affascinato. Non sto parlando un po’ romanticamente dei begli occhi così come si direbbe di una ragazza. Sto parlando del «modo di guardare», cioè di conoscere. Stando con Bill mi sono accorto che per me «guardare» è spesso una pura operazione meccanica, quella stessa che potrebbe fare una macchina fotografica che registra asetticamente le cose che la «impressionano» e il cui risultato è, appunto, se va bene, una superficiale impressione. Per lui no. Per lui lo sguardo era uno scavo, era uno scandaglio gettato al di là della superficie di ciò che vedeva, alla ricerca dell’immagine, del fondo delle cose. Per questo era capace di nessi sorprendenti, di scoperte continue, di accettazione infantile di tutto, perché tutto parlava ai suo sguardo attento. E per questo, in forza di quello che chiamava il suo «dono» artistico, poteva ripresentare sul panello una realtà completamente trasfigurata, anticipo della redenzione cui – secondo un’espressione di san Paolo a lui cara – tutta la creazione anela. Non sto a misurare quanto abbia imparato di questo suo modo di guardare. Il solo avermene aperto la prospettiva mi dà nei suoi confronti un debito di gratitudine, che il libro vuole in parte soddisfare.
Poi mi ha mosso il dispiacere. Il dispiacere per i molti amici che non l’hanno conosciuto, che non hanno potuto cercare di immedesimarsi col suo sguardo, che non hanno potuto conversare con lui o leggere qualche sua lettera in cui riprendeva e approfondiva spezzoni di dialogo e invitava ad andare sempre più in profondità alla scoperta del reale. So bene che un semplice libro non può sostituire questa esperienza. Ma magari può aiutare ad incamminarsi.

La vera bellezza non ha padroni

Non so se il mio amico pittore Bill Congdon – sia quando era all’apice della notorietà a New York, sia quando viveva gli ultimi fecondissimi anni della sua parabola artistica ritirato nella bassa milanese - sarebbe andato all’incontro degli artisti col Papa nella cappella Sistina. Era molto schivo. Il discorso di Benedetto XVI però sono sicuro che lo avrebbe letto con devota attenzione. Immagino di entrare nel suo studio proprio nel momento in cui ha finito di meditarlo. Mi legge questo passaggio: «Una funzione essenziale della vera bellezza consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, spingendolo verso l’alto».
Proprio mentre sto per chiedergli come mai questa frase lo abbia così colpito, Bill mi anticipa e dice: «Questa immagine della freccia che ferisce è proprio giusta. Troppi oggi, sia tra coloro che si credono artisti sia tra quelli che l’arte la guardano, l’ascoltano, la leggono, pensano che la bellezza sia una cosetta semplice semplice, un giochino scaltro, una consolazione a buon mercato. Io, invece, l’ho sempre vissuta come uno squassamento». Squassamento? «Ma sì, la bellezza è una cosa che non ti lascia in pace, è come uno strattone che ti tira fuori dalla banalità in cui ti rifugi per non pensare. È un taglio che rivela l’immensità del tuo desiderio. È la ferita di domande grandiose: Cosa sono, veramente, le cose? E dove vanno a finire? Nel nulla? Oppure ogni piccolo aspetto di ciò che esiste è una finestra che spalanca su un oltre? È una vita che tengo aperta questa ferita. Ogni quadro è accettare la sfida di andare oltre l’apparenza per cogliere la verità di quel che c’è».
Ma perché chiami questo “squassamento”? «Perché io non sono il padrone della realtà. Nessun uomo è il padrone della realtà. Semplicemente la riceviamo in dono. Quando ce ne dimentichiamo, accade quello che ha detto il Papa: la bellezza diventa “ipocrita”, pura maschera di una “volontà di potere”. Per non strozzare tutto dobbiamo tirare indietro le mani. E questo ti squassa».
L’immagine della bellezza che ferisce – e ferisce chiunque, non solo l’artista come Congdon – è costante nel pensiero di Ratzinger. Nel suo messaggio per il Meeting di Rimini del 2002 aveva scritto: «La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo». E, celebrandone i funerali, ha descritto don Giussani come «toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza». Sempre quel verbo: ferire. Sembra un accento negativo, ma è l’unica possibilità per evitare di ridurre la bellezza ad estetismo, che fugge dal tanto brutto che c’è nella vita. Infatti, scriveva ancora Ratzinger al Meeting, «un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente»; ciò di cui abbiamo bisogno è la paradossale bellezza di Chi, nello stesso tempo, ha un volto «sfigurato dal dolore» ed è «il più bello tra i figli dell’uomo».